Giusto o sbagliato? Questa è una frequente domanda che mi rivolgono i miei studenti; “faccio bene o faccio male”? “Eseguo bene questa questa tecnica questo movimento questa pratica oppure la eseguo male”? E’ una domanda lecita e può avere sicuramente anche aspetti che riguardano l'atteggiamento con cui si predispone una pratica, quindi un allenamento, o l'atteggiamento con cui ci si predispone a studiare un libro di testo; oppure a mettere in pratica un qualcosa che magari ha che fare con il massaggio tuina con la pratica della moxibustione ecc…
Personalmente, preferisco sempre parlare in termini di princìpi, perché hanno una caratteristica estensiva; quindi sicuramente ci sono degli aspetti tecnici che hanno a che fare con eseguo bene o eseguo male, poi ci sono anche degli aspetti individuali, ovvero persone che per loro insicurezza o per loro inesperienza o perché sono abituate ad avere un giudizio, sono alla ricerca di un feedback. Secondo il mitico effetto Dunning Kruger chiedere un feedback è sempre un qualcosa di positivo, ma il feedback non dovrebbe avere un carattere di “giudizio” bensì dovrebbe essere un’ osservazione di un contesto da un altro punto di vista; allora concepito in questo senso, “faccio bene o faccio male” è una domanda più che lecita. Dal punto di vista della rassicurazione che, invece lascia il tempo che trova, è invece una predisposizione errata rispetto allo studio intanto perché quando apprendiamo un qualcosa e stiamo chiaramente seguendo un percorso ben strutturato, deve trascorrere un certo tempo; la pretesa di far subito qualcosa bene, è una pretesa che non ha senso, che non ha funzione; sicuramente l'esecuzione di determinate istruzioni è un qualcosa di obiettivamente utile, e la ricerca di un feedback è appunto importante però nel senso assoluto il processo di apprendimento a tutta una serie di tappe che non possono prescindere dalla condizione di partenza di chi apprende. In senso relativo l'istruzione deve essere appresa in maniera corretta; in senso assoluto l'istruzione rappresenta uno step, un passaggio di una fase che adesso è giusta, ma fra un mese è sbagliata; perché magari in un determinato momento viene eseguita in maniera corretta, ma successivamente è necessario essere in grado di passare al livello successivo; quindi a prescindere dall informazione stessa è l'uso che si fa di questa informazione che fa sì che essa stessa sia funzionale a un certo processo di apprendimento. Tale processo è strettamente individuale perché ci sono persone che hanno più manualità, altre hanno più memoria, ecc… quindi, relativamente a un certo percorso il processo e il tempo sono relativi; quello che è veramente importante è essere nel percorso giusto e essere nel giusto atteggiamento. Riferito all'apprendimento, che è sicuramente un atteggiamento dinamico la parola chiave in questo senso è proprio il “fluire”, cioè l'essere capaci di passare attraverso un'informazione, passare attraverso un processo; e non ultimo ogni processo ha una sua difficoltà, per cui il superamento delle difficoltà consente allo studente che pratica di superare delle resistenze. Sicuramente, chi pratica queste discipline ha già una sua propensione filosofica o un piacere ad apprendere determinati aspetti, ma tutte le fasi dell'apprendimento devono essere in grado di superare la famosa zona di confort, quindi spesso e volentieri giusto o sbagliato viene selezionato anche come un'informazione unilaterale da parte dello studente che intende praticare solo quello che ritiene giusto per sé, o con il quale si sente più sincronizzato, invece è fondamentale la sincronia con l'insegnante! Questa sincronia è bilaterale, anche l'insegnante deve sapersi sincronizzare con lo studente, e proporre quindi una certa dose di pratica, di esercizi e di studio, pratica e studio vanno sempre insieme; per cui l'insegnate porta a costruire nella mente dell'allievo l'atteggiamento più idoneo all'apprendimento, più idoneo individualmente. Spesso si cerca di far riferimento a dei percorsi standardizzati perché questo ci dà più sicurezza, percorsi che sulla carta vanno bene, percorsi che vanno bene perché il tuo maestro e super famoso, ecc… Però quello che fa la differenza è sempre lo studente, è sempre da allievo per cui rispetto al giusto o sbagliato, non mi sento di rassicurare mai gli studenti, perché quando sei troppo sicuro che fai una cosa bene la stai facendo automaticamente ed essendo automatica è una fase che mette fuori gioco tutta una serie di considerazioni critiche che invece debbono comunque essere sempre presenti. Circa quanto ho accennato dell'effetto Dunning Kruger, che è quello che fa sì che la persona impari a superare il concetto della propria auto valutazione e che lo esprima in maniera dinamica per cui sicuramente i feedback vanno saputi richiedere alle persone giuste. e vanno saputi utilizzare in senso positivo e propositivo quindi la parola chiave è “fluire”. Mario Picconi
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di Mario Picconi
"Il Wu Ji è lo stato naturale in cui ci si trova prima di cominciare a praticare le arti marziali. La mente è senza pensieri, l'intenzione è priva di azione, gli occhi non mettono a fuoco, le mani e i piedi sono fermi, il corpo non si muove, lo yin e lo yang sono ancora divisi, la luce e l'oscurità non sono ancora separate, il Qi è unico e indifferenziato"... In queste parole il Maestro Sun Lutang (1861-1933), descriveva lo stato di partenza, in cui ci si predispone alla pratica del Taijiquan, perchè ciò era considerato così importante? Quando ci si appresta alla pratica del Taijiquan è necessario mettersi nella condizione di estranearsi dai pensieri della vita quotidiana, dalle preoccupazioni, dalle paure; con questo semplice atto stabiliamo una tendenza a tagliare i ponti del condizionamento e ci predisponiamo verso un vero ascolto del nostro sè, facciamo emergere la nostra vera natura e ci predisponiamo a lavorarci sopra. In questa accezione il taijiquan può diventare un sistema di lavoro profondo sulla persona, sul carattere, sulla salute, solo con questa predisposizione decidiamo consapevolmente di accedere ad un livello superiore di capacità. Si parla molto del Taijiquan come arte marziale o come attività fisica per la salute, ma si parla poco del potenziale del Taijiquan di far emergere il potere di trasformazione dell'energia della persona, ma questo non è un indotto passivo, richiede una predisposizione consapevole, è come svuotare una tazza prima di riempirla di nuovo, con un nuovo sapere, una nuova energia. L'errore più banale che si può fare nella pratica è quello di pensare che tutto sia in qualche modo "finito", "finalizzato", in questo modo useremmo solamente una parte del potere che il nostro organismo è in grado di sprigionare, restando fermi ad un livello parziale di consapevolezza. Ma con la giusta predisposizione ad impare e ad entusiasmarsi, possiamo scoprire che il taijiquan ha molto da offrire all'uomo moderno, primo fra tutti la capacità di rompere i limiti dei condizionamenti a cui tutti siamo sottoposti, che ci imprigionano dentro strutture comportamentali che non appartengono alla specie umana, ma ad un gregge addomesticato. Vuoi emergere? Datti da fare! Vuoi crescere? Impegnati! Ti vuoi evolvere? Impara ad eliminare i condizionamenti! Impara il Taijiquan... Di Mario Picconi
Questo principio applicato alle arti marziali esprime un concetto molto importante legato alla pratica cosiddetta “interna” (NeiJia), rappresenta l’atteggiamento ottimale al quale aspirare in una situazione di combattimento o comunque nell’eseguire i movimenti e le tecniche. Letteralmente WU significa “non”, “negativo” o “nessuno”, WEI significa “azione”, ”fare” o “sforzarsi”; la traduzione letterale di WU WEI sarebbe NON AZIONE, è questo un classico esempio di terminologia legata al kungfu che si esprime con termini apparentemente in contraddizione fra loro, anzi, per meglio dire bisogna fare un richiamo al fatto che la lingua cinese è composta da ideogrammi non da parole con un senso compiuto, cioè è una lingua simbolica, per cui i termini non assumono un significato in quanto tali, ma si modificano in relazione al contesto cui si fa riferimento. Questo modo di interpretare i concetti legati alle arti marziali ha lasciato spesso spazio ad interpretazioni poco corrette, in questo caso, wu wei, è stato spesso interpretato come un atteggiamento passivo, non-attivo. Wu wei è correttamente definito come azione attraverso la non-azione, in pratica è un’azione spontanea ma al tempo stesso un movimento compiuto con abilità ed efficacia sviluppato secondo il concetto di agire laddove non si incontra resistenza. Assimilare il concetto di wu wei nel kungfu vuol dire sviluppare una capacità di risposta del corpo che avviene spontaneamente, correttamente e col minimo sforzo, potremo quindi definirla all’occidentale come capacità di ottimizzare un movimento. L’errore che viene comunemente fatto a questo punto è però quello di analizzare le cose secondo una mentalità razionale propriamente occidentale, infatti queste risposte “ottimizzate” si basano sulla conoscenza di princìpi, strutture, allineamenti, ritmo, sincronia ecc… Ma il wu wei non deriva da un’intelligenza razionale, ma da una “intelligenza” acquisita nel corpo unicamente attraverso una forma di allenamento corretta e ripetitiva che consenta di acquisire una modalità di risposta spontanea. Questa acquisizione richiede uno studio continuativo delle tecniche fondamentali ed un passaggio dell’acquisizione a livelli, ora ogni studente nel corso di questo tipo di studio incontrerà difficoltà soggettive che risentono di aspetti fisici e caratteriali propri, per cui oltre allo studio standard degli esercizi e delle tecniche ogni allievo dovrà imparare ad osservarsi e incrementare lo studio laddove ci sono delle carenze specifiche; ecco che in questo caso, occorre fare un lavoro cosiddetto “razionale” insieme all’insegnante per cercare di capire quali siano le lacune ed i limiti personali di ognuno ed è in questi termini che lo studio avanzato della nostra disciplina si “personalizza”. Ed è proprio questo il nodo che consente all’allievo di fare il proprio personale salto di qualità. Ricercare il proprio wu wei significa uscire dagli schematismi del periodo di base e rivedere quello che si è acquisito sotto una luce più approfondita che richiede un forte atteggiamento critico trasformato in un forte desiderio di superare i propri limiti personali. Allora non sarà strettamente necessario studiare forme complesse o tecniche segrete ma avere l’umiltà di ripartire ogni volta daccapo, da come si cammina, prima di spiccare di nuovo il volo verso un livello di apprendimento più profondo. Usare il termine “approfondimento” è quanto mai appropriato infatti l’obbiettivo non è quello di spingersi in alto, al di fuori di noi, per evolvere la nostra pratica, ma invece fare un passo “dentro” di noi per riuscire ad esprimere una cosa che già possediamo, un’abilità innata, che però richiede una conoscenza del corpo e della propria mente per poter essere espressa. Ecco che il termine WU – negazione si può riferire all’uso della mente razionale inquinata spesso da troppe cose come i nostri preconcetti e le nostre limitazioni, e il termine WEI – sforzarsi indica l’azione di andare comunque avanti contro ogni ostacolo nella nostra ricerca personale; il senso compiuto di WU WEI non-azione ora diventa invece ricco di un tipo di azione volta a far emergere in noi una naturalezza ed una spontaneità di azione che deve essere propria di una persona libera da vincoli e incertezze per poter agire in accordo con le contingenze che richiede una determinata situazione, questo si addice ad un vero esperto nell’arte del kung fu. Il Taijiquan è uno degli stili di Wushu più famosi e diffusi. Nato circa 200 anni fa fu considerato come la tecnica più efficace in assoluto, da qui il nome che letteralmente significa boxe del principio supremo. Nel corso del suo sviluppo è andato sempre più differenziandosi dando origine a molte scuole fra cui nominiamo : yang, chen, wu, sun, woo.
Il Taijiquan ha i suoi principi nella filosofia taoista, la quale considera l'uomo come un microcosmo e quindi regolato dalle stesse leggi dell'universo. Questo insieme universale è chiamato Tao ed è dato dal continuo alternarsi di due forze chiamate yin e yang. Esse rappresentano il positivo ed il negativo, il maschile e il femminile, il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il cielo e la terra, la contrazione e l'espansione ecc. Lo yin e lo yang sono quindi forze opposte ma complementari, senza l'una l'altra non può esistere e una contiene comunque una piccola parte dell'altra. Lo yin e lo yang sono rappresentati da un simbolo che costituisce la base della raffigurazione grafica dei principi della filosofia tradizionale cinese, che si ritrovano nelle arti marziali, nella medicina, nella scrittura, ecc… Il continuo alternarsi di queste forze crea un equilibrio dinamico e determina lo scorrere del tempo. E' proprio su questi principi che il Taijiquan basa i suoi movimenti: parare, ritirarsi, spingere, premere, separare, avanzare e ritrarsi,ecc... Tutto il corpo coopera completamente in queste azioni, compresi sguardo e respiro. I benefici che questo esercizio porta sono subito spiegati: con i movimenti in cui abbiamo il totale coinvolgimento del corpo e tramite un'azione cosciente e volontaria del movimento stesso, si ha un forte effetto di sincronizzazione delle onde alfa e gamma a livello della corteccia cerebrale che va a coinvolgere anche le funzioni del sistema nervoso e l'attività psichica ad esso connesse (nervosismo, ansia, ecc.), ristabilendo il loro naturale equilibrio funzionale. La continua pratica porta infatti ad una calma e ad un benessere interiore che con altre attività fisiche non sono raggiungibili. di Mario Picconi PRINCIPI ESSENZIALI DEL TAI CHI CHUAN: RILASSARE LA NUCA E MANTENERE L'ENERGIA AL VERTICE
Questo princìpio riguarda l’atteggiamento della testa; nei testi classici si fa riferimento al mantenimento della testa “come appesa ad un filo”, intendendo il vertice del cranio sempre rivolto verso l’alto, questa attenzione riguarda la ricerca di un corretto allineamento delle vertebre cervicali. L’allineamento, non vuol essere un riferimento ad un atteggiamento rigido del collo, le posizioni vanno mantenute con leggerezza, ma questo atteggiamento ha importanti significati:
Mario Picconi Il Tai chi chuan o Tai ji quan, viene praticato da milioni di persone nel mondo, ciò che dall'esterno può apparire è l'aspetto di una disciplina lenta, morbida, praticata senza energia o sforzo, difatti viene erroneamente paragonata ad una "ginnastica dolce"; ma quello che appare è come guardare una finestra con le tende abbassate, un osservatore non esperto non riesce a scorgere quello che si cela oltre l'apparenza, perchè la tenda gli impedisce. Una visione superficiale consente solamente di vedere l'aspetto esterno del movimento, ma l'anima del Tai chi chuan ha profonde radici filosofiche che fanno riferimento alla cultura dell'antica cina e si basano sulla comprensione dei concetti di yin e yang, dei 5 movimenti e dell'I ching, entrare nella filosofia di questa disciplina è come entrare nella stanza con le tendine abbassate, e praticare questa disciplina è come diventare un tutt'uno con la filosofia a cui fa riferimento. Questo non vuol dire "diventare cinesi", ma appropriarsi di princìpi che comunque fanno riferimento all'uomo nella sua integrità, e che ormai appartengono anche al mondo occidentale, come ad esempio l'unicità di corpo e mente, l'unicitò di materia ed energia. Il praticante di Tai chi impara a bilanciare molti aspetti della sua vita, partendo da una maggiore conoscenza del proprio corpo e della relazione fra questo e l'ambiente in cui vive. Il concetto di morbidezza del tai chi, non rappresenta la mancanza della forza, ma un uso dell'energia interna e della mente, che prevede l'abbandono di certi schematismi del movimento che fanno riferimento alla sola forza muscolare; questo consente di accedere a dei sistemi di controllo del corpo che conferiscono forza nella morbidezza, tranquillità all'azione, controllo del tempo e dello spazio. Praticando cerrettamente il Tai chi chuan, nelle sue componenti del Qigong, dei movimenti delle forme e del Tui shou, si impara a connettersi con una forza primordiale, che appartiene a tutti gli uomini, ma che ci siamo dimenticati di possedere. Il Tai chi chuan è un mistero che si schiude agli occhi di chi sa guardare.
Mario Picconi Il Taijiquan è una delle arti marziali più straordinarie che esistono. L’aspetto più sorprendente di questa disciplina è che propone un sistema di difesa basato sul controllo, sulla calma e sull’equilibrio, anziché sull’aggressività, l’emotività e la distruzione. Modernamente il Taijiquan è molto controtendenza rispetto a discipline nate per il combattimento sportivo, che niente hanno a che vedere con la parola “arte marziale”; questa particolarità del Taijiquan lo ha reso molto popolare e diffuso nel mondo, come un sistema di difesa e al tempo stesso come una forma di mantenimento della salute mentale e del corpo.
Il Taijiquan si presenta con una certa varietà di stili, dove nessuno è in sostanza migliore degli altri, perché proprio nel concetto di Taiji, il termine “migliore di…” è un nonsenso; ciononostante il Taijiquan ha in sé il termine “quan” che significa letteralmante pugno, con questo termine vengono denominate le componenti marziali delle arti cinesi (es changquan, nanquan, xingyiquan, ecc…) . L’addestramento alla disciplina quindi non può prescindere, sin dall’inizio, dallo studio delle tecniche che introducono all’uso della corretta struttura energetica e meccanica del corpo, questo studio viene fatto anche attraverso la pratica regolare e costante del tuishou, la spinta delle mani, attraverso il quale il praticante apprende la corretta gestione del proprio corpo, della propria energia, dell’uso della forza e dell’uso del qi, e molte altre cose… Le forme che rappresentano i vari stili di Taijiquan si distinguono in modelli di movimento che posso apparire esternamente anche molto differenti fra loro, e a onor del vero gli stessi maestri cinesi sono in competizione fra loro su quale sia lo stile migliore o il “più forte”, in realtà questo tipo di considerazione non dovrebbe far parte di una condivisione marziale/taoista della pratica di questa disciplina e in certi momenti è stata anche strumentalizzata in termini di commercializzazione di un prodotto; a proposito dei vari stili di taijiquan, bisogna dire che nella sua essenza in realtà il Taijiquan è composto da pochissimi movimenti, sono infatti noti i cosiddetti “8 cancelli” e i “5 passi”, infatti in origine questa disciplina, fondata dal mitologico Chang Sanfeng, si chiamava semplicemente 13 tecniche. Tutti i movimenti degli stili moderni di taijiquan fanno riferimento a queste 13 tecniche, ed i maestri ne padroneggiano l’uso anche in combattimento. Le forme dei movimenti del Taijiquan sono tutte costituite da movimenti che si articolano secondo uno schema di lotta, che prevede l’uso di colpi, parate, calci, tecniche di atterramento o di controllo delle articolazioni. Il corretto uso del corpo è determinato dall’uso per cui un determinato movimento è stato progettato, per questo motivo lo studio del Taijiquan non può prescindere da questa conoscenza. Poi, in sostanza non si tratta di diventare chissà quali combattenti, ma è indispensabile conoscere l’integrità di ciò che si pratica affinchè tutte le componenti siano contemporanemente funzionali. Mario Picconi di Francesco Corsi Una problematica che affligge molte persone è l’artrosi. Importante è sottolineare che l’artrosi di per sé non è una patologia vera e propria ma viene definita come una degenerazione fisiologica dell’articolazione, come esito del consumo eccessivo della cartilagine ialina che riveste l’osso. Questa, in condizioni normali (fisiologiche quindi), permette il normale scorrimento dei capi ossei senza che questi si sfreghino l’un l’altro. Gli effetti negativi dell’artrosi, sulla qualità di vita di milioni di persone e sui costi di assistenza sanitaria e la produttività economica, ne fanno un importante problema di salute che aumenterà di incidenza l'impatto della stessa con l'invecchiamento della popolazione 1 (Buckwalter JA et. al., 2000). Infatti la degenerazione dell’articolazione determina un cambiamento della struttura e funzione dell’articolazione stessa 2 (Altman RD., 1997) con conseguente dolore e disabilità associate, debolezza muscolare, limitazione articolare ma coinvolgente anche il profilo psicologico 3 (Dekker J. et. al., 1992). Il fatto che l’incidenza dell’artrosi aumenti con l’aumentare dell’età ne hanno fatto una malattia dell’apparato locomotore fortemente associata all’invecchiamento. Nonostante questo, l’artrosi non è una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento mentre quest’ultimo tende ad aumentarne il rischio 4 (Martin JA, Buckwalter JA, 2002). Si pensa che l’invecchiamento rappresenti un fattore di rischio nell’insorgenza dell’artrosi in quanto diminuisca la capacità di mitosi (e quindi di duplicazione cellulare) dei condrociti e la loro conseguente capacità di sintetizzare cartilagine, diminuendo la loro reattività agli stimoli meccanici anabolizzanti 5 (Martin JA, Buckwalter JA, 2003). Nello specifico, nelle cartilagini di tipo ialino, la nutrizione delle cartilagini articolari avviene per diffusione di materiale dal liquido sinoviale, dall’osso sottostante e dalla membrana sinoviale. Tale diffusione è ostacolata dal grado di polimerizzazione (unità che si ripetono in sequenza) dei mucopolisaccaridi che aumenta con l’età; la cartilagine tende quindi ad andare incontro a fenomeni regressivi 6 (Vari autori, 2004) E tutto questo non è un fatto assolutamente secondario se si pensa che, secondo le stime dell’OMS, dal 2020 l’Italia sarà il Paese più “vecchio” al mondo 7 (Inelmen EM et. al., 2002). Lo stile di vita è sicuramente importante nel determinare o meno la gravità dell’artrosi: traumi, stress, posture viziate e professioni logoranti concorrono notevolmente all’insorgenza della degenerazione articolare. Tra i fattori di rischio più importanti, sicuramente vi è l’obesità che tende ad essere una causa primaria nell’insorgenza dell’artrosi del ginocchio (gonartrosi): la relazione tra indice di massa corporea (BMI) e obesità è infatti tendenzialmente lineare. Inoltre, in questo senso, sono spaventosi i numeri se si pensa che il 27% delle protesi di anca ed il 69% di quelle di ginocchio possono essere attribuite all’obesità 8 (Grazio S., Balen D., 2009). Concorrono come importanti predittori di peggioramento una bassa auto-sufficienza, lassità del ginocchio, scarso esercizio fisico aerobico, scarsa propriocezione articolare e maggiore dolore al ginocchio 9 (Issa SN., Sharma L., 2006). Anche lo sport di alto livello (agonistico) non è esente dall’essere un importante fattore di rischio distrettuale relativo all’attività sport specifica praticata: verosimilmente questo in relazione ai traumi e allo stress meccanico specifico elevato. Uno studio britannico 10 (Shepard GJ., Banks AJ., Ryan WG., 2003) rivela come calciatori ex professionisti presentassero una prevalenza di artrosi all’anca significativamente più alta, rispetto ad un gruppo controllo, attraverso controlli radiografici; un altro studio australiano 11 (Deacon A. et. al., 1997) riporta come calciatori di alto livello in pensione presentino alti livelli di artrosi al ginocchio soprattutto in quei soggetti che nel corso della loro carriera hanno subito traumi legamentosi e meniscali intraarticolari rispetto a quelli che hanno subito infortuni al legamento collaterale o che non hanno subito incidenti. Cambiando sport, nel judo si è notato uno sviluppo di artrosi nelle articolazioni delle dita della mano a causa di micro traumi ripetitivi 12 (Strasser P. et. al., 1997). Dopo aver fatto questa esamina su cosa sia l’artrosi e quelli che sono i fattori di rischio andiamo a vedere nello specifico come le arti orientali del Taijiquan e del Qi Gong possono tornarci utili per migliorare sensibilmente lo stato di salute delle articolazioni affette da artrosi. Senza dubbio uno dei punti di forza di queste discipline e del loro potere terapeutico sta nella lentezza: senza addentrarci in tematiche troppo complesse, questa permette tre sostanziali benefici:
Sono, come sempre, necessari grandi campioni per avvalorare i benefici di tali arti che tuttavia sono sempre più riconosciute come modelli di eccellenza al servizio della salute. I benefici sono sempre quelli dell’esercizio fisico ormai riconosciuti: il movimento determina la formazione di liquido sinoviale, fluido determinante nella lubrificazione articolare e nella conseguente preservazione della cartilagine. Nelle arti orientali, la lentezza, il movimento elastico unito al rilassamento mentale determina un incremento della microcircolazione data dalla vasodilatazione ed un conseguente aumentato scambio di metaboliti. Le arti orientali si prestano in maniera straordinaria, date le loro caratteristiche, a contrastare e migliorare la sintomatologia dolorosa dell’artrosi. Dato il loro profondo impatto sistemico sull’organismo è auspicabile che vengano sempre più inserite, non solo in un contesto di cura nelle persone anziane, ma anche in un contesto preventivo, a maggior ragione nello sportivo che ha necessariamente bisogno di compensare il duro stress psico – fisico. In questo senso non sono discipline dell’anziano, bensì discipline di salute e longevità. Discipline che non hanno età... di Gabriele Prigioni
Il ricordo sfugge. Siamo dimentichi di noi stessi, inconsapevoli, ci muoviamo come automi sospinti dalla routine della società. Appare evidente, questo, durante la meditazione: non ascoltiamo il respiro, oppure ci perdiamo dopo pochi attimi di attenzione. È opportuno ricordarsi di essere nel momento presente, qui e ora, in ogni fase della vita, non rammentarlo solo nelle circostanze sfortunate, ma anche e soprattutto in quelle gioiose. Evitare di isolare il tempo dedicato alla meditazione come pratica avulsa dall’esistenza tanto per trascorrere un’ora diversa, lontani dai problemi quotidiani, ma assaporare quel momento di presenza consapevole come dono da portare nella vita di tutti i giorni, regalo da offrire agli altri. Quando un monaco ha finito l’addestramento in un monastero, viene invitato a tornare nel caravanserraglio della vita a dispensare presenti agli altri. Il proprio percorso spirituale, il ricordare se stessi, tramite l’introspezione profonda, è un cammino preparatorio al ritorno nella quotidianità: mercato caotico dal quale siamo partiti per ritrovarci e al quale dobbiamo fare ritorno consapevoli dell’inesistenza di pace e di caos, ma di aver trasceso, divenendo Uno con il Tutto, o Assoluto. Gabriele Prigioni di Mario Picconi
Il Qigong è suddiviso in diversi stili di pratica, ma fondamentalmente tutti gli stili hanno in comune molti princìpi guida. In particolare viene messa l’attenzione sul fatto che bisogna “entrare in uno stato di tranquillità”, questo è collegato a tre aspetti fondamentali del qigong: 1. regolare la postura 2. regolare il respiro 3. regolare la mente Innanzitutto la parola chiave è “entrare”, perché questo è un processo attivo che prevede di prepararsi ad accedere ad uno stato di “tranquillità”, e non è per niente scontato, in quanto siamo continuamente sottoposti a stress di ogni tipo, e fermarsi, concentrarsi, tranquillizzarsi, richiede una procedura e un’attitudine. La procedura è determinata dall’ordine con cui vengono eseguiti gli esercizi, l’attitudine è quella di predisporsi uno spazio di tempo e di “mente” da dedicare alla nostra pratica personale. Lo stato di calma, quiete, rilassamento che si sperimenta con la pratica degli esercizi di qigong è dovuta al raggiungimento di un alto grado di concentrazione mentale. In questo stato il praticante appare distaccato da tutti gli stimoli esterni conservando un certo livello di consapevolezza; in pratica si realizza una condizione simile alla trance indotta con l’ipnosi, ma si differenzia per la presenza di un alto grado di regolazione sensoriale. Questa regolazione è dovuta all’integrazione di segnali eccitatori ed inibitori, come testimoniato da esperimenti condotti con l’elettroencefalogramma e dalla rilevazione di parametri biochimici. Si può affermare che praticare il qigong produce una sincronizzazione delle onde cerebrali e un incremento del matabolismo intorno al 60% in più, di una persona normale. Quindi parlare di regolazione della “mente” corrisponde in effetti alla regolazione del sistema nervoso centrale, il quale integrato con il sistema endocrino, comporta la produzione di fenomeni di regolazione nell’intero organismo. Pur essendo in relazione a determinate posture ed alla respirazione, lo stato di tranquillità è in relazione al “regolare la mente”. Per mente intendiamo quel livello di coscienza grazie al quale pensiamo, percepiamo, sentiamo, operiamo volontariamente, ed altro ancora. Normalmente la nostra mente è impegnata nella elaborazione di pensieri astratti o di immagini. Nello stato di tranquillità diventa predominante il pensiero concreto basato sui sensi. Normalmante le percezioni sensoriali sono messaggi dovuti a stimoli esterni che attivano connessioni riflesse nel sistema nervoso, e sono quindi fenomeni passivi; quando si pratica il qigong, nel momento in cui ci concentriamo su noi stessi ad occhi chiusi, i segnali esterni si riducono al minimo e i pensieri che ci distraggono vengono anch’essi ridotti. Durante questa fase si producono comunque dei segnali che attivano sensazioni o immagini che non sono in relazione con l’ambiente esterno ma che vengono prodotte dalle nostre facoltà mentali, entriamo in uno stato detto di “meditazione” che per certi versi è paragonabile ad un “sonno cosciente”; sappiamo che durante il sonno il cervello, fra le tante cose, elabora ricordi ed esperienze, in questa fase di quiete lo fa in uno stato di coscienza, lavora quindi in una fase di integrazione consapevole. Questa regolazione della mente è quindi uno stato psicologico sotto il controllo del praticante di qigong. L’intensità della forza di volontà è maggiore nei soggetti addestrati, meno suscettibili ad influenze esterne, che realizzano un processo naturale di sviluppo inconscio, si potrebbe dire che allenano “i muscoli del cervello” a produrre uno stato di tranquillità, verso il quale tendere spontanemente per contrastare gli effetti negativi dello stress e cercare di vivere nel quotidiano una condizione di benessere. |
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